Buchi neri

Blog che parlano di buchi neri

Il quasar Pōniuāʻena visto dal radiotelescopio NOEMA e in basso la mappa spettroscopica con il picco nelle emissioni con la "firma chimica" del monossido di carbonio

Un articolo pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters” riporta la scoperta del gas molecolare freddo più distante nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar soprannominato Pōniuāʻena, uno dei tre quasar luminosi più distanti conosciuti. Un team di ricercatori guidato da alcuni associati dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha usato osservazioni condotte con il radiotelescopio NOEMA (Northern Extended Millimeter Array) per ottenere la rilevazione del gas, per la precisione monossido di carbonio. Questo studio può fornire informazioni preziose per capire come un buco nero supermassiccio potesse avere una massa un miliardo e mezzo di volte quella del Sole quando l’universo aveva “solo” settecento milioni di anni.

Immagine del cosiddetto campo ultra-profondo usato nell'indagine MIDIS e sulla destra evidenziate alcune delle galassie primordiali al centro di questo studio

Un articolo pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters” riporta uno studio che indica che l’universo primordiale era molto più luminoso di quanto previsto dalle simulazioni basate sugli attuali modelli cosmologici. Un team di ricercatori coordinato dal Centro di Astrobiologia di Madrid ha usato osservazioni condotte con il telescopio spaziale James Webb per esaminare galassie che si sono formate tra 200 e 500 milioni di anni dopo il Big Bang. La combinazione di osservazioni condotte con lo strumento NIRCam e dell’indagine MIRI Deep Imaging Survey (MIDIS) dell’Hubble Ultra Deep Field (HUDF) su un campione di 44 galassie primordiali mostra la loro sorprendente luminosità e compattezza.

Schema della Terra come centro di rilevazione di onde gravitazionali a bassissima frequenza emesse da coppie di buchi neri supermassicci (in alto) usando le pulsar (in basso) (Immagine cortesia EPTA)

Una serie di articoli pubblicati o in fase di pubblicazione sulle riviste “Astronomy and Astrophysics” e “The Astrophysical Journal Letters” riporta vari aspetti della rilevazione di onde gravitazionali a bassissima frequenza. Ricercatori dello European Pulsar Timing Array (EPTA), dell’Indian Pulsar Timing Array (InPta), del Parkes Pulsar Timing Array (PPTA), del Chinese Pulsar Timing Array (CPTA) e del North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NanoGrav) hanno analizzato dati raccolti nel corso di oltre 25 anni usando gruppi di pulsar per ottenere una sorta di rilevatore di onde gravitazionali a livello galattico. Ciò è stato possibile sfruttando l’estrema regolarità dei segnali emessi dalle pulsar per rilevare variazioni inferiori al milionesimo di secondo e le loro correlazioni per individuare onde gravitazionali. Questa tecnica espande l’astronomia delle onde gravitazionali aperta dai rilevatori LIGO e Virgo dall’annuncio della prima rilevazione nel febbraio 2016.

L'area attorno a Sagittarius A* (Immagine IXPE: NASA/MSFC/F. Marin et al; Chandra: NASA/CXC/SAO; Image Processing: L.Frattare, J.Major & K.Arcand)

Un articolo pubblicato sulla rivista “Nature” riporta le prove che circa 200 anni fa Sagittarius A*, o semplicemente Sgr A*, il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, abbia avuto un periodo di intensa attività durante il quale ha inghiottito notevoli quantità di gas e polveri. Un team di ricercatori guidato da Frédéric Marin dell’Osservatorio astronomico di Strasburgo ha usato soprattutto dati raccolti dal telescopio spaziale IXPE per esaminare la polarizzazione della luce nei raggi X emessa da grandi nubi molecolari luminose vicine a Sgr A*. La conclusione è che la loro luminosità fuori dal normale doveva essere dovuta al fatto che si tratta di emissioni riflesse prodotte da una sorta di eruzione potente e di breve durata del buco nero supermassiccio avvenuta circa 200 anni fa.

Rappresentazione artistica dell’accrescimento di un buco nero (Immagine cortesia John A. Paice)

Due articoli, uno pubblicato sulla rivista “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society” e uno su “The Astrophysical Journal Letters”, riportano altrettanti studi su quella che è stata definita la più grande esplosione cosmica mai rilevata. Due team di ricercatori hanno studiato i dati raccolti con vari strumenti riguardo all’evento catalogato come AT2021lwx offrendo due ipotesi diverse per la sua causa. Entrambi i team ritengono che un buco nero supermassiccio distante circa 8 miliardi di anni luce dalla Terra abbia generato quell’esplosione ma sono in disaccordo su cosa l’abbia innescata: un team indica una nube di gas e polveri che viene inghiottita in modo violento mentre l’altro team indica un evento di distruzione mareale in cui una stella viene divorata.